Amici mai


Caro alunno che mi chiedi l’amicizia su Facebook, leggo oggi che secondo alcuni dovrei risponderti “scordatela!”.

Intanto, sia chiaro: il “caro” con cui ho iniziato questo post è una formula convenzionale: non farti venire cattive idee, non ho intenzione di giocarmi la mia autorevolezza facendoti credere che tu mi sia effettivamente caro.

Poco male, la “non-amicizia” su Facebook non è certo questione di vita o di morte. E sicuramente l’idea che qualche preside decida di invadere la mia e tua libertà personale deve necessariamente avere motivazioni di gravità assoluta. Provo a spiegartele, per come mi vengono in mente.

Perché, devi sapere, quella che si chiama “amicizia” su Facebook, non è vera amicizia. Lo so che questa notizia ti sconvolge, come ti sconvolge il sospetto, a questo punto, che il virtuale e il reale siano due mondi diversi, con regole differenti. Immagino già con che spirito mi hai chiesto l’amicizia: volevi invitarmi a giocare con la PS a casa tua, e magari immaginavi che io, in cambio, sarei stato un po’ più tenero con compiti e valutazioni, o forse ti avrei consultato per decidere quali parti del programma fare o saltare. O magari speravi che saremmo diventati inseparabili, i migliori amici. O, se tu fossi una ragazza, chissà che altre mire avresti avuto. Devo, purtroppo, deluderti. E, per non rischiare pericolosissimi fraintendimenti, declino subito la tua richiesta.

E’ anche, si dice, una questione di rispetto. Non devi volere che io invada il tuo mondo, né io gradire che tu faccia parte del mio. Bisogna distinguere ben bene i ruoli. Io devo sempre e solo essere quello che ti spiega trigonometria, tu sempre e solo il “sei e mezzo” tirato che potrebbe fare di più. Io l’insegnante, tu lo studente. Che va solo a tuo vantaggio, sai? Così, non ti verrà mai il dubbio che dietro a questa o quella materia ci sia qualcosa che può cambiare la vita di una persona, che scocciatura! Così, potrai allegramente dimenticare tutto quel che studi, al più tardi con la maturità, perché il tuo ruolo sarà terminato. E io vivrò molto meglio il mio mestiere, perché basterà il tuo sei per certificare il mio successo. Lasciamo, davvero, le cose personali al di fuori della scuola, del rapporto tra insegnante e studente. Distraggono. Ti fanno venire grilli per la testa, uno rischia di appassionarsi, o di mostrare la propria inadeguatezza, i propri limiti. Guai!

Ha ragione quel preside: non c’è niente come guardarsi negli occhi per capirsi. Al bando questa follia di internet: si prende appuntamento e ci si guarda bene negli occhi. Così potremo davvero comprenderci.

Eh sì, proteggiamoci, così nessuno di noi deve autocensurarsi. Se non ti do l’amicizia, siamo tutti e due liberi di fare quel che vogliamo in rete, di postare le foto più imbarazzanti, di esprimere i commenti più idioti, di sparlare di chiunque ci passi per il capo. A cosa ti serve vedere come un adulto maturo usa Facebook? A cosa ti serve avere qualcuno che, magari, ti consiglia di non scrivere certe cose apertamente? A cosa ti serve sapere che quel che scrivi viene letto anche da adulti, che sono lì a leggere quel che scrivi perché li hai invitati tu? E a me? Cosa mi serve sapere quali sono i tuoi gusti, cosa fai nel tuo tempo libero, che abilità hai nel disegnare, nel fare il dj, di che passioni sei capace? A cosa mi serve farti gli auguri di compleanno?

E poi c’è il grave problema dell’autorevolezza. Perché devi capire che voi studenti siete un po’ sempliciotti, non ci arrivate mica molto. Un insegnante fatica mesi e mesi per crearsi un’autorevolezza e poi gli studenti trovano una foto che lo ritrae in costume da bagno in spiaggia, o vestito da carnevale, o leggono un suo status o un commento scemo di un suo amico, e via! L’autorevolezza è persa per sempre! Come farvi capire, visto che proprio non ci arrivate, che l’autorevolezza dipende dalla preparazione, dal lavoro, dall’equilibrio, dalla serietà, dalla voglia di mettersi in gioco… Non si può! Anche perché non si può mica entrare troppo in dettaglio su quanto un insegnante lavora, su quanto è serio, su quanto si mette in gioco: quelli non sono affari vostri!

Eh, già, più vado avanti a scrivere, più mi convinco che la risposta giusta alla richiesta sia un secco “no”, magari accompagnato da “Ma come ti permetti?”.

Me la chiederai, questa “amicizia” su Facebook, quando sarai un ex-alunno, e io un tuo ex-insegnante. Quando avremo esaurito i nostri ruoli. Quando li avremo vissuti in modo tale da non avere assolutamente nulla da dirci.

Cordiali saluti, il tuo (“tuo” si fa per dire) prof.

NB: il fatto è che quest’anno non ho alunni, quindi questa lettera è a vuoto. Ma qualche ex potrebbe aver voglia di commentare, chissà.

4 commenti

  1. Prof con noi ha trasgredito a questa regola, fortunatamente mi permetto di aggiungere col senno di poi. Io personalmente credo che il rapporto insegnante-studente debba, pur mantenendo una certa “formalità”, (che per altro apprezzo anche al di fuori dell’ambito scolastico) debba andare oltre il lavoro di chi mi spiega 2 volte a settimana trigonometria ed il mio 5 stiracchiato (onestamente parlando). Dal tono con cui ha scritto questo pezzo e conoscendola un pò penso che in fondo in fondo sia così anche per lei, magari mi sbaglio, eppure mi ricordo il rapporto che lei aveva con noi, ed il modo in cui tutt’ora noi della III L di oggi ci ricordiamo di lei.

    1. Non ti sbagli. Se non, forse, ma è colpa mia, nel non cogliere l’ironia in quel che ho scritto… 🙂

  2. Caro Alessandro, caro Prof,
    mi viene da chiamarti prof anche dopo dieci anni, anche dopo che ho scoperto di condividere appartamento e vita con un tuo amico d’infanzia, anche dopo essere diventata, a tutti gli effetti credo, adulta. In fondo non sono poi molte le persone a cui concedo d’avermi insegnato davvero qualcosa, magari mi sbaglio, ma mi piace pensare (molto poco modestamente) di essere diventata selettiva a sufficienza da riconoscere il pressapochismo e invece rendere merito all’impegno genuino, alla passione. Mi viene da chiamarti ancora prof perché mi hai insegnato belle cose, forse non tanto matematica e fisica, che mio malgrado ho abbandonato molto velocemente e superficialmente. Di te mi ricordo soprattutto il sorriso con cui arrivavi in classe la mattina, la disponibilità all’ascolto, lo spirito di sopportazione con noi casi disperati nelle ore di recupero pomeridiano, e ho ben chiara nella testa l’unica volta che ti sei arrabbiato davvero (e facevi anche paura!). E mi ricordo della lettera che consegnasti ad ognuno di noi alla fine dell’ultima lezione, un augurio personalizzato per le nostre vite. Ecco, forse adesso ti direbbero che non si fa, che hai trasceso, che non faceva parte del tuo ruolo, che avresti dovuto rimanere dietro la cattedra e non confonderti con noi giovini mezzi adulti tormentati, e io invece ti dico grazie, non te l’ho mai detto prima e me ne dispiaccio, perché ricordo ancora quella riga scritta sul foglio bianco, ricordo di essermi subito stupita e poi quasi commossa, perché tu avevi capito, e io che con molta fatica cercavo di tirarmi fuori dai terremoti dell’adolescenza, non avevo bisogno d’altro se non di comprensione.
    Non credo di essere stata l’unica ad averla pensata così.

    1. Grazie, cara Chiara.

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